Buona vita, signora! La benedizione del giocoliere intervento della teologa Cristina Simonelli
Buona vita, signora! Un augurio, una benedizione raccolta a un semaforo, fra un rosso che diventa verde e le auto che rombano nervose in un ingorgo degno di città più grandi di Verona. Un giocoliere, per qualche spicciolo che forse non arriva. Il gioco era simpatico e in risposta alla monetina, ecco l’augurio inconsueto. Subito mi ha raggiunto e mi ha fatto sorridere, poi è diventato più importante, come le parole di altri “angeli/profeti” imprevisti, ricevute nella mia vita.
In seguito, però, si è ulteriormente insinuata ed è penetrata in questa meditazione che stavo preparando, scavando un orecchio e dando un corpo alla speranza battesimale: mi esprimo così perché l’augurio si è mescolato alle varianti del Salmo 40,7 ripreso in Ebrei 10, 5-7 secondo la più diffusa traduzione greca (LXX): le due forme che mi ronzavano in testa erano l’una lo specchio dell’altra, in una traduzione che interpretava e potenziava. Se nella forma forse a noi più familiare si dice “sacrificio e olocausti non hai gradito, mi hai dato un corpo”, nel testo ebraico leggiamo “mi ha dato orecchi” o, meglio, “hai scavato i miei orecchi”.
La benedizione del giocoliere sta in questa cavità moltiplicata, l’augurio di una buona vita dà corpo alla nostra speranza scavando i nostri orecchi e aprendo i nostri occhi: buona vita, pigiata e scossa in abbondanza. Quale vita? Quella di Gesù per tutte e tutti, per ogni piccola vita: “sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Un annuncio che mette in moto, come una profezia; una benedizione che opera, come un sacramento; un dono che offre speranza. Certo sappiamo che “più grande è la carità”, ma la speranza ha una sua forza particolare. La speranza è potente, proprio perché non ha potere sul suo oggetto: lo invoca, lo attende, lo prefigura – è virtù condivisibile con ognuno che è per via, che aspira a una meta, che spera una buona vita.
Il battesimo ne è segno e caparra, per lo Spirito: il Signore ci “precede in Galilea”, terra mescolata e contaminata, ci viene incontro da straniero come a Emmaus: la grazia, se appena lasciamo varco, se ne “coltiviamo la memoria” (Carlo Maria Martini), ci apre gli occhi a riconoscerlo anche nel giocoliere al semaforo, ci guida a trovare risorse dove penseremmo deserto, a osservare e custodire i fiori del campo, a benedire e interrompere i discorsi di odio, ad abbattere i recinti e attraversare i confini: non c’è giudeo né greco, schiavo né libero uomo e donna, perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù (Gal 3,27-28). Per dirla in termini sintetici, come in una preghiera eucaristica etiope, porta con sé “tutta la vita del Figlio”. Se a questo si può aggiungere qualcosa, come in Romani 8, ci mostra tramite il “gemito dello Spirito che attraversa le parole” che non ci allontana da noi stessi, dalla nostra fragilità, dal creato, ma ci rivela che siamo terra, che siamo connessione, che tutto in noi e con noi – non solo tramite noi – invoca.
Di tutto questo sottolineo solo due aspetti:
- Nella caparra del battesimo riceviamo la possibilità di benedire i frammenti – che niente vada perduto – attratti tuttavia da un disegno complessivo, di cui siamo testimoni benedicenti, non proprietari. I laboratori che avete fatto sono speranza in atto e in pratica, presa di responsabilità che non si lascia fermare dalla sproporzione delle forze in campo, perché non è un compitino da svolgere, ma parte di un progetto di vita, per noi e soprattutto per le generazioni a venire. Non ci lasciamo abbattere da questa sproporzione, ma non abbiamo neppure l’ingenuità di pensare che ciò che è necessario fare sia anche sufficiente per un esito complessivo. Per questo siamo fra i cercatori, portatori di speranza, che si protende ma non può dire di avere la proprietà della meta desiderata…
- dunque proprio per questo la speranza si lascia condurre verso una virtù a lei “vicina”, quella della dimora, quella dello stabat mater. Dono/compito di stare nell’attesa e anche di reggere l’incertezza: tra l’opzione ingenua di “tutto andrà bene” e quella catastrofica della certezza di una fine tragica, c’è la terra di mezzo del “non sappiamo ma re/stiamo”, anzi se si può comporre una nuova parola, “non sappiamo ma co/re/stiamo”, riceviamo e mettiamo a disposizione la forza mite della speranza, che non è ottimismo, ma consegna, che ha il volto di Dio per noi, con noi, Emanuele per sempre, il suo corpo vita del mondo, qualunque cosa succeda, anche nei deserti e nei semafori. Buona vita, che possa attraversare ogni crisi, anche quella della morte.
La speranza cristiana intervento del Patriarca Francesco Moraglia*
Devo dire che mi è sembrato particolarmente felice quest’anno abbinare il battesimo a quella che è una delle tematiche più urgenti: la salvaguardia del creato, la custodia, la promozione. Quando noi affrontiamo una questione è facile perdere di vista quello che ci è richiesto come prospettiva che guarda un tutto.
Ci può essere un cristiano che fa il banchiere, ci può essere un cristiano che fa il geologo, ci puoi essere un cristiano che fa l’urbanista, un cristiano che si occupa di biomedicina, c’è un cristiano che si occupa delle intelligenze artificiali. Ecco, a me sembra importante porre lo sguardo come cristiani sul tema, al di là di quella che è poi la nostra vocazione e la nostra missione particolare. Allora legare il battesimo alla realtà della speranza cristiana vuol dire pensare che cos’è la speranza. La speranza non è una fuga in avanti, non è dire che tutto andrà bene. La speranza cristiana è qualcosa di diverso.
Sul tema del creato, dell’ambiente e degli ecosistemi (poi ognuno usa il suo vocabolario proprio), le parole sono molto importanti; il linguaggio, la forma più soggettiva di cultura, non è una cosa secondaria. Ecosistema, ecoambiente o creato sono parole che indicano in un certo senso la stessa realtà ma con prospettive diverse. Io credo che come cristiani dobbiamo essere attrezzati spiritualmente e teologicamente a conoscere quelle realtà, per quanto è necessario essere informati su quegli aspetti specifici che dicevo prima.
La prima cosa da dire come cristiani è che la creazione fa parte della nostra fede.
Quando insegnavo teologia, si diceva che bisognava iniziare dal capitolo 11 della genesi. Il capitolo 11 della genesi è Abramo, è la storia della salvezza. I primi 11 capitoli sarebbero stati consegnati al mito o comunque non dovevano appartenere al discorso teologico. La teologia guida la spiritualità, la teologia non è un di più. La cultura guida le nostre scelte operative. Il teologo ha bisogno di una fede intelligente. La creazione appartiene alla mia fede. Incominciare a capire questo: che tutto quello che riguarda il creato non è un’aggiunta collaterale al mio essere cristiano ma appartiene al mio essere cristiano.
Non possiamo solo limitarci a citare qualche volta Francesco d’Assisi (ma io direi anche Benedetto, “ora et labora”; il monastero benedettino è stato una sintesi importante e felice di modi di rapportarsi al territorio, di valorizzare dei territori e di creare una comunità orante che vedeva nel lavoro qualcosa di importante).
Poi dobbiamo anche riscoprire alcuni passi della sacra scrittura. Io penso all’Antico Testamento: la predicazione dei Profeti è molto attuale oggi. Pensiamo ad Amos, la questione del creato è una questione di Giustizia, come è stato evidenziato: “che Giustizia e Pace scorrano”. Il fatto che i popoli ricchi abusino dei popoli poveri è una questione di ingiustizia. Dovremmo recepire la Popolorum progressio, che è stata veramente profetica oltre cinquant’anni fa.
Poi ci sono le beatitudini, c’è quella beatitudine che richiama “perché vi preoccupate di cosa mangeremo di cosa berremo” – Matteo 5 – “cercate prima di tutto la giustizia e il regno di Dio”. La speranza cristiana è avere uno sguardo sul tutto e sul futuro. Giustizia, o come noi noi diciamo “volontà di Dio”; c’è la traduzione interconfessionale che mi ha fatto sorridere perché è la stessa del catechismo della chiesa cattolica: Giustizia è uguale a desiderare ardentemente quello che Dio vuole. Il catechismo della chiesa cattolica si esprime dicendo che è desiderare ardentemente la volontà di Dio per sé e per gli altri, quindi le beatitudini, la predicazione dei profeti, la creazione come parte della mia fede cristiana.
Un’altra riflessione che mi pare importante fare riguarda il poco interesse, la poca sensibilità che molte volte si ha sulla custodia del creato. La promozione del creato è legata anche a un atteggiamento culturale.
Noi sappiamo che la modernità inizia con una questione gnoseologica, mi riferisco a Cartesio cogito ergo sum; il fondamento di tutto il mio io. Guardate che non è una cosa secondaria porre l’io autoreferenziale come punto di partenza e certezza originaria. L’antichità parlata di un’apertura alla realtà. Dicevamo l’essere; io incontro l’essere, incontro la trascendenza dell’essere che mi chiede di andare oltre me.
Sono convinto che la tematica ecologica, ecosistemica, ambientale, creazionale abbia bisogno di un impianto culturale forte. Dobbiamo avere delle buone motivazioni come cristiani – che non hanno una fede fideistica – ma una fede che, direbbe don Milani, si interessa delle cose (I care).
Ecco prima dell’errore, del rischio di chiudersi nel proprio comodo, prima di chiudermi nel mio covo, ne deriva io faccio quello che ti pare. Alle generazioni future non interessa imparare a declinare il pronome noi. Con l’educazione dobbiamo portare a tema collettivo, comunitario, sociale questo aprirci culturalmente a un discorso di solidarietà che sia fondato, motivato anche dal punto di vista culturale.
Trent’anni moriva Pino Puglisi. Una frase di Puglisi un anno prima della sua morte è questa: “la testimonianza cristiana ha a che fare col martirio”, prima o poi diventa martirio. Il 15 settembre del 1993 compiva sessant’anni. La sera Salvatore Pericoli gli spara sulla porta della canonica. Lui si volta, lo guarda, vede che l’altro estrae la pistola e gli dice “me l’aspettavo” e lo guarda con un sorriso. Cito questo perché sono le parole che dice Salvatore Grigoli, (adesso non è più quello che era trent’anni fa) “quello sguardo, quel sorriso che non mi giudicava, ma mi amava, ma anche contestava, da quella sera me lo porto dentro”. Oltre quello che io vedo, quello che io misuro, quello che tutti dicono, c’è un clericalismo anche nelle posizioni che difendono il creato. Ritenere che c’è clericalismo solo in qualche ambiente vuol dire non conoscere l’animo umano. Ci sono tanti clericalismi, tanti confessionalismi, anche quelli della scienza. Credo allora che giornate come questa debbano aprire a 360 gradi a qualcosa che vogliamo costruire. Don Puglisi ha sostanzialmente accettato di essere quel chicco di grano che muore per produrre molto frutto.
-[…] Gli stili di vita richiedono una conversione, che non è mai qualcosa di fideistico ma, mi viene in mente Romano Guardini, è vero, bello e buono ciò che è bello, vero, buono per la Parola di Dio. Questo bello, questo vero, questo buono della Parola di Dio richiede una fatica teologica, una mediazione che poi rende gli stili di vita non atteggiamenti acritici ma motivati e fondati.
*Trascrizione di M.S. da registrazione, non rivista dal patriarca
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